SERVONO SOLUZIONI INTEGRATE E BASATE SULLA NATURA

Il grido di allarme lanciato dagli scienziati dell’IPCC (il Panel Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici) con l’ultimo rapporto pubblicato a fine marzo di quest’anno, indica chiaramente come non ci sia più tempo da perdere per fronteggiare l’emergenza climatica. Il surriscaldamento del pianeta, con un aumento della temperatura media globale di 1.1°C rispetto all’era preindustriale (1850-1900), sta già avendo impatti diffusi e disastrosi che colpiscono la vita di miliardi persone in tutto il mondo. L’aumento di ondate di calore, siccità ed inondazioni sta già superando il livello di guardia. Questi eventi meteorologici estremi si stanno verificando simultaneamente, causando impatti a cascata che sono sempre più difficili da gestire. Oltrepassare la soglia di 1,5°C entro la fine del secolo avrà effetti devastanti e irreversibili sull’ecosistema globale e sulle generazioni future.

In questo scenario si inserisce l’estate 2022, quella che è forse stata la peggiore siccità in Europa da 500 anni a questa parte, e il 2023 che si preannuncia ancora più drammatico. La grave crisi idrica in corso è senza dubbio da inquadrare nella epocale crisi climatica ed ecologica in atto e come tale va approcciata in modo strutturale, affrontandone le cause e non limitandosi a rincorrerne i sintomi con risposte emergenziali, nonché riconoscendo che siccità e alluvioni sono problemi che mostrano molte connessioni e la cui gestione va definita in modo integrato. L’attuale azione di Governo, tuttavia, come ulteriormente dimostrato dal DL Siccità appena approvato, sostanzialmente basata su interventi infrastrutturali, su un’estensione dell’approccio commissariale e su un’ulteriore artificializzazione di un reticolo idrico già prossimo al collasso, appare assolutamente inadeguata. Il Commissario straordinario, previsto dal decreto, va ad aggiungersi ai Commissari straordinari per il dissesto idrogeologico, ai quelli per accelerare la predisposizione e l’attuazione  del Piano nazionale di interventi  nel  settore  idrico, al Commissario unico nazionale per la depurazione, ai Commissari delegati per gli interventi urgenti per la gestione della crisi idrica. Tale politica, che si affida all’estemporaneità e promuove interventi infrastrutturali che creano spesso più danni che benefici, è e sarà inefficiente e inefficace nell’affrontare in modo ordinario e pianificato la gestione delle acque.

Canoe on a dry river. Drought and global warning. Spain

Dai laghetti alle dighe: perché realizzare nuovi invasi lungo i corsi d’acqua non può essere la risposta adeguata alla crisi idrica

Negli ultimi anni diverse associazioni di categoria hanno fatto pressione sul Governo per realizzare un’estesa campagna di realizzazione di nuovi invasi. Inizialmente l’oggetto di tali proposte erano i cosiddetti “laghetti”, ovvero invasi collinari di piccole dimensioni destinati all’accumulo di acqua piovana, non necessariamente connessi all’intercettazione di tratti del reticolo idrico naturale (sebbene su tale aspetto centrale sia sostanzialmente mancata chiarezza), rispetto ai quali siamo possibilisti, per quanto non siano esenti da criticità. Ai laghetti, tuttavia, si sono più recentemente aggiunte numerose proposte, spesso riciclate dopo decenni, di realizzazione di vere e proprie dighe (Enza, Bidente, Soana, Vanoi, Campolattaro, Posada, Candigliano, Orcia… l’elenco potrebbe continuare a lungo), una soluzione che appare fuori dal tempo e del tutto inadeguata come misura di adattamento al cambiamento climatico, e non a caso nemmeno presa in considerazione dal PNACC.

Storicamente in Italia, come in altri paesi mediterranei, le politiche di approvvigionamento idrico hanno puntato ad accrescere la “capacità di regolazione” dei deflussi superficiali, creando invasi in cui accumulare le acque nel periodo piovoso per utilizzarle durante quello arido. Questa strategia ha tuttavia ben pochi margini per essere ulteriormente attuata. Innanzitutto, le sezioni dei corsi d’acqua dove era più facile ed efficace realizzare invasi sono ormai già sfruttate.  Attualmente in Italia vi sono 532 grandi dighe, di cui solo 374 in pieno esercizio, mentre 7 risultano ancora in costruzione, 76 in attesa di collaudo, 41 a invaso limitato e 33 fuori esercizio temporaneo (Annuario dei dati Ambientali 2020, ISPRA, 2021), mentre per le piccole dighe sono state raccolte informazioni su 26.288 invasi, molti dei quali recentemente costruiti. Da notare che, sulla spinta degli incentivi, gli impianti di produzione di energia idroelettrica, e la conseguenza frammentazione del reticolo idrico soprattutto montano, sono aumentati enormemente nell’arco di un decennio: nel 2009 erano 2.249, nel 2018 4.337 (Terna, 2018). Impianti piccoli, con un contributo energetico strategico trascurabile (+ 0.7% di potenza installata in 10 anni) ma con elevati impatti ambientali.

In secondo luogo, anche il riempimento dei volumi di accumulo esistenti sta diventando sempre più difficile a causa del mutato regime delle precipitazioni, a partire da quelle nevose; con i grandi laghi alpini e gli invasi artificiali semi vuoti sembra molto ottimistico che realizzarne di nuovi possa risolvere il deficit idrico.

Negli ultimi decenni, inoltre, sono risultati sempre più evidenti i notevolissimi impatti ambientali e socio-economici degli sbarramenti dei fiumi: secondo l’analisi delle pressioni sulle acque svolta in attuazione della Direttiva Quadro 2000/60, dighe e altri ostacoli sono infatti il fattore di pressione più significativo in almeno il 30% dei corpi idrici europei e causa del mancato raggiungimento del buono stato ecologico in almeno il 20% dei corpi idrici europei.

Più nello specifico le dighe, oltre ad impattare drammaticamente sulla popolazione ittica, hanno determinato (insieme alle escavazioni in alveo) un cronico deficit di sedimenti su estese porzioni del reticolo idrografico italiano, con incisione degli alvei ed erosione costiera e conseguenti danni a ponti e opere di difesa, rendendo necessario un ingente esborso di risorse per ricostruire o stabilizzare tali infrastrutture e per realizzare opere di difesa dei litorali. Incisione degli alvei ed erosione delle coste sono fattori primari di depauperamento delle falde freatiche e di intrusione del cuneo salino, ovvero proprio quei fenomeni che vengono spesso imputati esclusivamente alla siccità e che si pretende di combattere con nuove dighe.

All’accumulo negli invasi si collegano poi altri problemi significativi che non vengono mai messi sul tavolo della discussione:

  • gli invasi perdono molta acqua per evaporazione. Come media italiana, ad essere molto cautelativi, non meno di 10.000 m3/anno per ogni ettaro di superficie dello specchio d’acqua, ma questa quantità è sicuramente maggiore nel Mezzogiorno e per gli invasi di minori dimensioni (ad esempio quelli collinari) e non farà che aumentare al crescere delle temperature medie;
  • soprattutto negli invasi più piccoli l’acqua può raggiungere temperature elevate, con formazioni di condizioni anossiche, fioriture algali e sviluppo di cianotossine (uno dei problemi di qualità dell’acqua emergenti di maggior rilievo a livello mondiale) tutti fattori che compromettono il successivo utilizzo di queste acque.
  • La necessità di sfangamento degli invasi, che spesso comportano interventi costosi e complessi sul piano tecnico, impatti ambientali rilevanti e la difficoltà di reperire siti idonei, nel caso in cui i fanghi vadano smaltiti al di fuori del corso d’acqua.

Risulta pertanto evidente come gli invasi lungo i corsi d’acqua non rispettino assolutamente il principio DNSH (Do No Significant Harm), che prevede che gli interventi previsti dai PNRR nazionali non arrechino nessun danno significativo all’ambiente. Un eventuale finanziamento tramite questa fonte non dovrebbe quindi essere ammissibile.

Vanno inoltre in direzione diametralmente opposta rispetto alla Strategia Europea per la Biodiversità 2030 e alla proposta di Regolamento europeo per la “Nature Restoration”, che chiedono invece di ripristinare la connettività dei corsi d’acqua, rimuovendo sbarramenti che creano più danni che benefici, e non di costruirne di nuovi Non vi è quindi nessuna opposizione “ideologica” agli invasi, ma sono una soluzione che porta spesso molti più danni che benefici, per cui sarebbe semplicemente illogico ed irresponsabile affidarsi primariamente ad essi.

Gli invasi per l’innevamento artificiale: stop all’accanimento terapeutico che consuma suolo e paesaggio

Tra i vari tipi di invasi ce n’è uno in particolare che dimostra la mancanza di prospettiva nel rincorrere il cambiamento climatico: quelli per l’innevamento artificiale. Sull’arco alpino vi è una chiara tendenza alla riduzione delle precipitazioni nevose. Si prevede che a un’altitudine di 1500 m, tra il 2030 e il 2050, avremo l’80-90% di neve in meno, in connessione con l’innalzamento dello zero termico medio. Per riempire i 142 invasi attualmente censiti (dossier Nevediversa) e i molti in progetto dovremo togliere ulteriore acqua a torrenti che sono già prosciugati dalle migliaia di piccole derivazioni idroelettriche disseminate nel reticolo montano, il cui regime idrico sta drammaticamente cambiando a causa della riduzione degli accumuli nevosi e in cui in un prossimo futuro verrà in molti casi a mancare il contributo dei ghiacciai. Non di rado questi bacini artificiali sono collegati con impianti di innevamento obsoleti anche in termini di rete e prelievo idrico, dissociato dal contesto naturale. Questi invasi non fanno i conti con il fabbisogno di energia, le alterazioni del ciclo idrologico, la qualità dell’acqua proveniente da fonti lontane e la prevedibile maggiore concorrenza tra le risorse idriche. Rischiamo quindi di consumare suolo e danneggiare il paesaggio per realizzare infrastrutture comunque inutilizzabili per mancanza d’acqua o per le temperature troppo elevate.

Deroghe al Deflusso Ecologico: non possono diventare la norma

Per sopperire all’eccesso di domanda irrigua rispetto alla disponibilità idrica, troppo spesso si fa ricorso al meccanismo della deroga al Deflusso Ecologico, che dovrebbe restare una misura di assoluta emergenza. Ora la deroga, applicata anche nella misura del 70% e per l’intera stagione irrigua, sta di fatto diventando un istituto ordinario in diverse regioni, vanificando così gli sforzi in corso per passare da un ormai obsoleto Deflusso Minimo Vitale a un vero e proprio Deflusso Ecologico, che tenga in considerazione i diversi aspetti rilevanti del regime idrologico e le funzioni e servizi ecosistemici ad essi associati. La presenza di invasi (così come di laghi naturali regolati) è strettamente legata a tali deroghe, con rilasci a valle ridotti per periodi sempre più estesi per garantirne il riempimento. La realizzazione di nuovi invasi rischia, non solo di alterare ulteriormente il regime idrologico di corsi d’acqua già fortemente impattati, ma di determinare un’ulteriore spinta per altre deroghe.

Disponibilità e consumi di risorse: superare l’incertezza delle conoscenze

Sembra impossibile, ma nel 2023 ancora non sappiamo quanta acqua è disponibile in Italia per essere prelevata dai fiumi (stante la capacità di invaso esistente oggi) o dalle falde: le stime oscillano dai 52 ai 142 miliardi di metri cubi all’anno[1]. Nonostante l’enorme quantità di informazioni meteoclimatiche e satellitari oggi disponibili, non disponiamo di un protocollo nazionale di monitoraggio che permetta di stimare adeguatamente le disponibilità annuali. Quel che è certo è che queste risorse si stanno progressivamente riducendo, secondo ISPRA, infatti, “Il valore annuo medio di risorsa idrica disponibile per l’ultimo trentennio 1991-2020 si è ridotto del 19% rispetto a quello relativo al trentennio 1921-1950 stimato dalla Conferenza nazionale delle acque tenutasi nel 1971 e che rappresenta il valore di riferimento storico”.

Quanto ai consumi annui, conosciamo ormai bene quelli per gli usi civili periodicamente rilevati dall’ISTAT: si erogano ai cittadini circa 4,7 miliardi di metri cubi l’anno, ma, a causa delle perdite delle reti di distribuzione, il prelievo è decisamente maggior. Si prelevano, infatti, da pozzi, sorgenti o fiumi oltre 9 miliardi di metri cubi.

Benché le stime sugli usi industriali non siano mai state aggiornate da oltre 20 anni, è ragionevole ritenere che siano ormai largamente inferiori agli 8 miliardi di metri cubi stimati nel 1999. Un particolare uso industriale – l’idroelettrico – utilizza e accumula molta acqua superficiale, provocando notevoli impatti ambientali, che suscitano aspri conflitti.

Ma l’incertezza maggiore riguarda gli usi irrigui. Il Censimento dell’Agricoltura 2010 stima che per irrigare i 2,42 milioni di ettari di superficie irrigua nazionale si impiegano circa 11,1 miliardi di metri cubi all’anno, che tenuto conto delle elevate perdite di distribuzione delle reti irrigue implicherebbe un prelievo di circa 25 miliardi di metri cubi. Però solo nel distretto del Po, secondo il Piano di Gestione delle Acque, l’agricoltura comincia a soffrire già con una disponibilità inferiore ai 18 miliardi di metri cubi. Non dobbiamo poi trascurare la necessità della ricarica delle falde sotterranee, obiettivo che può essere garantito anche evitando di intubare integralmente l’acqua destinata all’uso irriguo in agricoltura, valutando pro e contro di tale intervento sulla base dello specifico contesto. Insomma, a oltre 50 anni dalla prima Conferenza Nazionale sulle Acque che doveva fornire un robusto quadro conoscitivo, ancora non sappiamo davvero quanta acqua preleva, disperde e consuma il settore agricolo, di gran lunga il maggior utilizzatore di acqua in Italia.

Le prime azioni necessarie sono quindi: a) rafforzare e armonizzare il ruolo e le competenze delle Autorità di bacino distrettuale; b) definire protocolli di raccolta dati e modelli logico/previsionali che permettano di prefigurare, per ciascun bacino, bilanci idrici annuali delle disponibilità, dei consumi reali e della domanda potenziale; c) individuare obiettivi raggiungibili di riduzione dei consumi (come proposto, ad esempio, per l’agricoltura nel Piano del bilancio idrico del bacino del Po[2]); d) prevedere di conseguenza una revisione delle concessioni idriche ed e) avviare politiche di risparmio ed efficientamento per tutti i settori.

Una strategia nazionale integrata: le politiche idriche al tempo del cambiamento climatico

Per affrontare razionalmente la minor disponibilità di risorsa idrica causata dal cambiamento climatico bisogna eliminare i paraocchi che ci spingono verso le stesse soluzioni usate nei secoli scorsi e allargare lo sguardo. Innanzitutto, affiancando alle azioni sul fronte dell’offerta (volte ad aumentare la disponibilità di risorsa) misure che agiscono sul fronte della domanda (come rendere più efficienti gli usi della risorsa). Ma anche ampliando il ventaglio delle soluzioni tecniche praticabili.

Le strategie per ridurre la domanda d’acqua

I consumi idrici industriali si stanno drasticamente riducendo e rappresentano una quota certamente inferiore al 15% a scala nazionale: ci limitiamo qui agli usi civili e agricoli.

Usi civili

Perdite: Grazie alla recente Regolazione della Qualità Tecnica del Servizio Idrico Integrato avviata da ARERA, molti enti gestori hanno già avviato iniziative di progressiva riduzione delle perdite: è necessario prevedere strategie per accelerare questo percorso volto a portare le perdite percentuali entro il 25% e quelle lineari entro i 15 m3/km/gg. Per farlo è necessario facilitare gli investimenti da parte degli enti gestori, sia facilitandone l’accesso al credito, che riducendo i vincoli alla crescita delle tariffe (prevedendo poi opportune misure di protezione per le famiglie numerose e gli strati sociali economicamente più deboli).

Consumi: al netto delle perdite l’Italia è il paese dell’EU con i consumi domestici più elevati (220 litri/abitante/giorno contro i 150 della Grecia e i 132 della Spagna – fonte: Blue Book 2022). Questo per la totale mancanza di incentivi per favorire la diffusione di soluzioni che nel resto d’Europa si stanno diffondendo, come la raccolta della pioggia e il riuso delle acque grigie depurate. Devono essere sviluppate misure specifiche sia aggiornando la regolazione edilizia comunale che prevedendo schemi tariffari fortemente disincentivanti per consumi che superino i 140 litri abitante giorno e incentivi per chi ricorre a risorse non convenzionali.

Usi agricoli:

È necessario identificare una strategia nazionale e uno specifico sistema di incentivi capaci di orientare le scelte degli agricoltori verso colture meno idroesigenti e metodi irrigui più efficienti e adatti al contesto irriguo, anche – ove possibile – attraverso una adeguata rimodulazione del Piano Strategico Nazionale della PAC e dei relativi Complementi per lo Sviluppo Rurale regionali.

In particolare:

Perdite: l’agricoltura disperde molta acqua e se da un lato questa dispersione andrebbe ridotta, per diminuire i prelievi dai corpi idrici naturali, dall’altro può avere degli effetti positivi, in quanto ricarica la falda e sostiene molteplici habitat. Il bilancio dipende dallo specifico contesto e va valutato con cura e sulla base di dati attendibili. La sostituzione diffusa delle reti costituite da canali a cielo aperto con tubazioni in pressione avrebbe molte controindicazioni e sarebbe comunque una misura molto costosa e non applicabile ovunque, anche per esigenze di tipo ambientale e paesaggistico. Tuttavia, in alcuni specifici contesti, con produzioni agricole ad elevato valore aggiunto, potrebbe essere una soluzione praticabile, considerata la sua notevolissima efficacia (da stime fatte in Romagna permetterebbe una riduzione del 70% dei consumi).

Consumi: è necessario favorire – ad eccezione di particolari situazioni che richiedono la protezione di habitat e paesaggi tipici legati all’irrigazione a scorrimento e sommersione – la diffusione di varietà resistenti alla siccità, colture autunno-vernine e sistemi di irrigazione che permettano consumi più bassi (es. inferiori ai 2.500 m3/ettaro/anno). Fondamentale è promuovere un intero sistema agroalimentare che richieda un minor uso idrico, anche attraverso una riconversione del sistema dell’industria zootecnica. Per produrre un kg di carne di manzo servono oltre 15.000 litri d’acqua, prevalentemente usati per irrigare il mais o la soia necessari per produrre i mangimi; con la stessa quantità d’acqua si producono quasi 11 kg di pasta, con una capacità nutrizionale superiore di oltre 10 volte![1] Importante inoltre valutare il ruolo di strumenti e tecniche di agricoltura digitale per l’irrigazione di precisione. Tecnologia e innovazione applicate all’agricoltura, dalle stazioni meteo ai sensori di umidità del terreno fino a sistemi basati su IoT (Internet of Things) e intelligenza artificiale, possono infatti ridurre fino al 20% i consumi di acqua rispetto ai sistemi di coltivazione tradizionali. Strumenti e tecniche che hanno ancora una diffusione molto scarsa nelle aziende agricole del nostro paese.

Ripristinare la salute del suolo: una spugna più efficace degli invasi, sia per la siccità che per le alluvioni

L’agricoltura intensiva ha poi determinato un estremo impoverimento dei suoli agricoli. Secondo ISPRA il 28% del territorio italiano presenta segni di desertificazione, che non è banalmente un problema di mancanza d’acqua. Secondo i dati CREA (2017) in Italia il contenuto di Carbonio Organico nei suoli è in media pari all’1 %: questo indica suoli disfunzionali, proni alla desertificazione, meno capaci di trattenere acqua e nutrienti, dalla minore capacità produttiva. E la situazione sta rapidamente peggiorando: gli ultimi dati di Ispra (2022) ci dicono che tra il 2012 e il 2020 sono stati persi quasi 3 milioni di tonnellate di carbonio organico contenuto nei primi 30 cm di suolo.  Si stima che aumentando di solo 1% il contenuto di sostanza organica nel suolo, la capacità di trattenere acqua aumenti di quasi 300 m3 per ettaro. La superficie agricola italiana è di circa 17 milioni di ettari, si tratta quindi di un accumulo di oltre 5 miliardi di m3, quasi la metà di quella che si può attualmente accumulare negli invasi delle grandi dighe italiane (11,.8 sono i miliardi di metri cubi invasabili attualmente stimati). Acqua fondamentale da restituire alle piante nei periodi di siccità, ma anche da trattenere durante le precipitazioni. Un suolo sano quindi aiuta anche a ridurre i picchi di piena. Ma non finisce qui, perché trattenere CO2 nel suolo significa contribuire direttamente a ridurre le emissioni di gas serra, mitigando il cambiamento climatico.

Le strategie sul fronte dell’offerta

Gli acquiferi, dove presenti e dove le condizioni idrogeologiche lo consentono, rappresentano la soluzione migliore per lo stoccaggio dell’acqua. I serbatoi artificiali sono sostanzialmente interventi monofunzionali, per cui la multifunzionalità tanto sbandierata è solo una chimera, come mostra la realtà degli invasi esistenti, perché i diversi obiettivi a cui possono teoricamente contribuire sono tra loro conflittuali e nella pratica si possono raggiungere solo molto parzialmente. La ricarica controllata della falda può determinare un ventaglio ampio di benefici oltre quello dello stoccaggio: acquiferi più prossimi alla superficie sono di sostegno a numerosi indispensabili habitat umidi, lentici e lotici; si previene la subsidenza indotta dall’abbassamento della falda; falde più elevate rilasciano lentamente acqua nel reticolo idrografico sostenendo le portate di magra; livelli di falda alti contrastano l’intrusione del cuneo salino. I sistemi di ricarica controllata della falda costano in media 1,5€/m3 di capacità di infiltrazione annua, mentre per gli invasi i costi arrivano a 5-6€/m3 di volume invasabile. I sistemi di ricarica controllata consumano molto meno territorio, per essi è più facile trovare siti idonei; metodi “naturali” come le Aree Forestali di infiltrazione, già realizzate ed efficacemente dimostrate in alcuni contesti agricoli, andrebbero incentivate e potrebbero, fornire diversi servizi ecosistemici aggiuntivi.

Trattenere l’acqua sul territorio

L’ostacolo principale all’infiltrazione delle piogge nel suolo è quel poderoso e capillare insieme di interventi umani messi in atto da secoli, esasperati nei decenni scorsi e tuttora imperanti anche culturalmente, tanto da essere considerati simboli di civiltà e progresso.

Non c’è tetto che non abbia i suoi pluviali che recapitano le piogge in fognature bianche, immediatamente allontanate verso il mare. Non c’è strada, parcheggio, piazza che non sia dotata di una capillare rete di canalizzazioni sotterranee (naturalmente impermeabili: in cemento, metallo o plastica); quasi tutte le aree costiere (e vaste aree agricole) sono dotate di un’efficace rete di bonifica e scolo, spesso dotata di idrovore, per abbassare il livello della falda gettandone a mare le acque; non c’è fiume che, almeno in parte, non sia arginato o canalizzato per evitare che le acque di piena allaghino i terreni (compresi quelli agricoli o incolti); anche gli alvei del minuto reticolo idrografico urbano sono sistematicamente canalizzati.

Per invertire questa tendenza la de-impermeabilizzazione delle aree urbane è un’azione chiave che va inserita in una strategia più ampia di recupero delle acque meteoriche nelle città che, numeri alla mano, ha un potenziale enorme.  

In Italia, infatti, mediamente le precipitazioni annuali ammontano a circa 300 miliardi di metri cubi di acqua, di cui solamente 58 miliardi sono effettivamente utilizzabili, a causa della distribuzione non omogenea delle piogge e dell’evaporazione. In questo contesto, i dati pluviometrici relativi a 109 città capoluogo di provincia nel 2023, anno in cui le piogge sono state anche inferiori alle medie storiche di riferimento, ammontano a circa 13 miliardi di metri cubi di acqua piovana. Acqua caduta sui tetti, sull’asfalto e sul cemento delle nostre case e delle nostre città e che viene rapidamente convogliata nelle fognature o nei corsi d’acqua. Uno spreco di risorsa enorme se pensiamo che 13 miliardi di metri cubi di acqua corrispondono a circa il 40% dei prelievi medi annui di acqua in Italia (circa 33 miliardi di metri cubi). Un volume che è il doppio di quello contenuto nei 374 grandi invasi in esercizio, che ammonta a circa 6,9 miliardi di metri cubi.

Al di fuori dell’ambiente urbano, si deve inoltre garantire la presenza di aree naturali all’interno delle aziende agricole, funzionali non solo alla tutela della biodiversità degli agroecosistemi ma anche alla ritenzione idrica. Le strategie per la “Biodiversità 2030” e “From farm to fork” nell’ambito del New Green Deal prevedono di destinare almeno il 10% della superficie agricola al mantenimento di aree naturali, per garantire la produzione e il mantenimento di importanti servizi ecosistemici, compresi quelli relativi al ciclo dell’acqua. Obiettivi ripresi anche dalla recente proposta normativa sul ripristino della natura.

Ridare spazio e riqualificare i corsi d’acqua per tutelare la biodiversità e mitigare siccità e alluvioni

Per far sì che le precipitazioni permangano più a lungo sul territorio, alimentando le falde e smorzando i picchi di piena, invece di scorrere velocemente a valle, un’altra misura fondamentale è la restituzione di spazio ai fiumi, riducendone la canalizzazione e ripristinando la connessione tra gli alvei e le pianure inondabili, anche rimuovendo opere di difesa e, quando necessario, ricostruendole a maggior distanza dal fiume. In questa direzione va anche il ripristino della connettività monte-valle, rimuovendo o modificando parte degli sbarramenti esistenti, per recuperare le forti incisioni subite dagli alvei nei decenni scorsi a causa dell’eccesso di escavazioni nei corsi d’acqua e all’effetto di dighe e invasi. Tutte azioni già ampiamente normate anche in Italia, e ampiamente previste anche dal PNACC, ma ad oggi sostanzialmente inattuate. Unico esempio di riqualificazione a scala vasta (sono coinvolti Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna e Veneto), in corso di realizzazione, è il progetto di rinaturazione del Po che impegna 357 milioni di euro del PNRR per interventi di recupero di lanche e rami laterali del fiume, di ripristino delle fasce di bosco ripariale, di riduzione dell’artificialità attraverso la riduzione dei pennelli di navigazione; un esempio, nato da una proposta di WWF e ANEPLA, che potrebbe essere replicato in molti altri fiumi italiani anche per contribuire al raggiungimento degli obiettivi della Strategia Europea per la Biodiversità. Misure di riqualificazione sono fortemente necessarie, sia come misura di adattamento, che per arrestare il drammatico declino degli ecosistemi acquatici in Italia. Gli obiettivi della Direttiva Quadro sulle Acque sono infatti ancora molto lontani (solo il 43% dei fiumi e il 20% dei laghi raggiungono l’obiettivo di qualità “buono” per lo stato ecologico, sulla base di una classificazione ufficiale (peraltro solo parziale e decisamente ottimistica). Inoltre, la maggior parte degli ecosistemi a elevato rischio censiti di recente nella Lista Rossa degli Ecosistemi d’Italia sono legati alle acque dolci, così come la sopravvivenza di molte specie a rischio d’estinzione in Italia dipende dalla qualità di fiumi, laghi e altre zone umide. In generale le trasformazioni dei sistemi ecologici acquatici – originate sia dall’artificializzazione dei territori che da controproducenti pratiche di supposta “messa in sicurezza”, quali il taglio sistematico della vegetazione riparia – hanno determinato un forte impoverimento della loro funzionalità ecologica, con effetti fortemente negativi sulla biodiversità. La maggior parte dei Paesi europei ha da tempo strategie e programmi di grande respiro per la riqualificazione ecologica dei corsi d’acqua, e diversi di essi stanno investendo ingenti risorse Next Generation EU per il recupero di aree umide, il ripristino della connettività e la rinaturazione, azioni viste come un fondamentale investimento per il futuro, con un importante ritorno anche economico (secondo la Commissione Europea, ogni euro investito in rinaturazione porta tra 8 e 38 € di benefici economici connessi ai servizi ecosistemici forniti. L’Italia in questo è il fanalino di coda dell’Europa e con le attuali proposte del Governo rischia ulteriori passi indietro. È tempo che anche l’Italia si doti di un programma naturale di riqualificazione e ripristino della connettività dei corsi d’acqua.

Promuovere il riuso in ambito irriguo delle acque reflue, oggetto del Regolamento UE 741/2020

Secondo un report del JRC del 2017, circa il 47% della domanda irrigua italiana potrebbe essere soddisfatta da questa fonte. L’indagine “Il riutilizzo delle acque reflue in Italia”, realizzata da Utilitalia (la Federazione delle imprese idriche, ambientali ed energetiche), sostiene che il riuso delle acque reflue depurate in agricoltura ha un potenziale enorme (9 miliardi di metri cubi all’anno, l’acqua che esce dai depuratori), ma in Italia viene sfruttato solo per il 5% (475 milioni di metri cubi), a causa di limiti normativi, pregiudizi degli agricoltori e una governance non ancora ben definita. È necessario superare i limiti culturali su questa soluzione, a cui dovremo necessariamente ricorrere nei prossimi anni e che, se progettata con criterio, ovvero seguendo i principi della gestione del rischio, e associata a una capillare attività di monitoraggio della qualità, garantisce che l’acqua recuperata sia utilizzata e gestita in modo sicuro per la salute e l’ambiente. Esistono diverse esperienze in Europa, ma anche casi pilota in Italia, che dimostrano come tutto ciò sia possibile. Ne restituisce un quadro il report “Technical Guidance – Water Reuse Risk Management for Agricultural Irrigation Schemes in Europe”, pubblicato a novembre 2022, dal Joint Research Centre (JRC) della Commissione Europea. Il riuso delle acque reflue potrebbe essere favorito, inoltre, associando agli impianti di depurazione delle acque reflue urbane dei sistemi di fitodepurazione e lagunaggio, che garantirebbero anche una maggiore persistenza degli accumuli in superficie contribuendo alla ricarica delle falde sotterranee.

La non-soluzione: i dissalatori

Anche la proposta che vede la realizzazione di impianti di desalinizzazione per aumentare la disponibilità idrica non è sostenibile come soluzione strutturale di approvvigionamento idrico per il Paese. Può essere presa in considerazione solo in casi di necessità, in determinati periodi dell’anno e solo per realtà particolari, ad esempio le piccole isole. Sono, infatti, molto elevati tanto i costi economici quanto quelli energetici e ambientali associati a questa tecnologia. I residui del trattamento, ad esempio, sono costituiti da una “melma” ipersalina (la salamoia) ricca di anti-incrostanti, metalli e cloruri: per ogni litro di acqua desalinizzata c’è un residuo di 1,5 litri di salamoia – a concentrazione variabile, in funzione della salinità dell’acqua di partenza, che determina notevoli impatti dove viene scaricata e tende a stratificarsi in prossimità del fondale marino, alterando gravemente habitat e specie. Ad esempio, laddove siano presenti praterie di Posidonia oceanica, specie cruciale per l’equilibrio dell’intero ecosistema marino, anche lievi variazioni di salinità possono determinare impatti estremamente rilevanti. Nonostante la tecnologia della dissalazione sia in costante evoluzione, l’elevato consumo energetico resta un limite intrinseco, che non viene risolto associandovi una produzione locale di energia rinnovabile, come il fotovoltaico, in quanto tale energia verrebbe comunque sottratta ad altre componenti della domanda energetica nazionale.

Non servono “piani straordinari” ma piani “ordinari” efficaci

Le soluzioni indicate sopra sono già (o dovrebbero essere) tra le misure previste dalla Piani di Gestione dei bacini idrografici e dettagliate della Regioni nell’ambito del loro Piani Regionali di Tutela delle Acque come prescritto dal D.Lgs 152/06. Non servono quindi Piani straordinari concepiti sull’onda emotiva dell’emergenza: le procedure straordinarie devono essere limitate alle decisioni per affrontare alcune particolari criticità e urgenze (dare priorità agli usi civili, quali colture salvare, fino a che punto e con che criteri indennizzare chi subisce danni dalla siccità), ma non è ragionevole prendere decisioni riguardanti le politiche infrastrutturali e di lungo periodo con procedure straordinarie. Altrimenti inevitabilmente si è portati a spendere il più rapidamente possibile, sprecando denaro pubblico per opere inutili e dannose per l’ambiente (si considerino ad esempio le molte opere di regimazione dei corsi d’acqua impattanti e spesso controproducenti realizzate con i fondi d’emergenza della tempesta VAIA).

È necessario invece prevedere dotazioni finanziarie adeguate e schemi virtuosi di attivazione di risorse private per l’attuazione delle misure previste dalla Pianificazione ordinaria.

In sintesi: le azioni chiave per una politica idrica che favorisca l’adattamento ai cambiamenti climatici

  1. Il MASE, di concerto con il MASAF e con il supporto di ISPRA, ISTAT, IRSA-CNR e le altre istituzioni tecnico-scientifiche in grado di contribuire, istituisca protocolli di raccolta dati e modelli logico/previsionali che permettano di conoscere e rendere disponibile ai cittadini stime affidabili delle disponibilità di risorse idriche, dei consumi reali e della domanda potenziale.
  2. Definire e adottare per ogni bacino idrografico Piani di bilancio idrico con misure di gestione delle siccità che devono essere inserite nella pianificazione territoriale e tenute in considerazione nel rinnovo delle concessioni idriche, in modo da superare definitivamente l’attuale approccio emergenziale.
  3. Individuare, sentita ARERA e le associazioni degli enti d’Ambito e dei gestori dei SII, gli eventuali ostacoli e i meccanismi di reperimento delle risorse finanziarie che permettano di accelerare il percorso volto a portare le perdite delle reti civili al di sotto del 25% (per le perdite percentuali) e entro i 15 mc/km/gg (per le perdite specifiche lineari) e di introdurre un nuovo criterio in aggiunta ai 6 definiti dalla “Regolazione della Qualità Tecnica del Servizio Idrico Integrato”, che premi i gestori che massimizzano il riuso delle acque depurate.
  4. Definire, di concerto con l’ANCI, una strategia che promuova la riduzione dei consumi idrici domestici e il ricorso ad acque non potabili (acque di pioggia accumulate o acque grigie depurate) per gli usi compatibili (risciacquo dei WC, lavatrice, lavaggi esterni) in modo da portare il valore medio dei consumi civili di acqua potabile a non oltre i 150 litri abitante giorno.
  5. Il MASAF, di concerto con il MASE, definisca una strategia di trasformazione del nostro sistema agroalimentare, identificando misure fortemente orientate a:
    • favorire la diffusione di colture e sistemi agroalimentari meno idroesigenti;
    • promuovere la diffusione di misure mirate all’incremento della funzionalità ecologica dei paesaggi e suoli agrari e della loro capacità di ritenzione idrica;
    • contenere i consumi irrigui.
  6. Garantire la piena attuazione degli obblighi di rilascio del deflusso ecologico nei copri idrici, per assicurare una maggior resilienza degli ecosistemi acquatici in condizioni di siccità e anche al fine di ripristinare le naturali funzioni di ricarica delle falde acquifere, associandolo a misure di ricarica artificiale.
  7. Recepire le misure previste dalle strategie per la “Biodiversità 2030”, “From farm to fork” e “Suolo” nell’ambito del New Green Deal dell’UE e riprese dalla recente proposta normativa “Pacchetto Natura” presentata dalla Commissione Europea.
  8. Avviare una un programma nazionale di riqualificazione e ripristino della connettività dei corsi d’acqua, come misura di adattamento al cambiamento climatico, in coerenza con gli obblighi della Direttiva Quadro Acque e con gli impegni della Strategia Europea per la Biodiversità e in sinergia con la Direttiva Alluvioni. Destinare, in particolare, almeno 2 miliardi di euro l’anno per un periodo di 10 anni ad interventi di riqualificazione morfologica ed ecologica dei corpi idrici naturali e del reticolo minore.

Roma, 26 aprile 2023

Documento a firma di:

CIPRA Italia, Vanda Bonardo, Presidente
CIRF, Andrea Goltara, Direttore
Coordinamento Nazionale Tutela Fiumi – Free Rivers Italia, Lucia Ruffato, Presidente
Deafal, Nicola Pagani, Presidente
Dislivelli, Giuseppe Dematteis, Presidente
Federazione Nazionale Pro Natura, Mauro Furlani, Presidente
Federparchi, Luca Santini, Presidente
Fridays For Future Italia, i e le portavoce
Greenpeace, Giuseppe Onufrio, Direttore Esecutivo
Italia Nostra, Antonella Caroli, Presidente
Legambiente, Andrea Minutolo, Responsabile Scientifico
Lipu-BirdLife Italia, Claudio Celada, Direttore Area Conservazione della Natura
Mountain Wilderness, Adriana Giuliobello, Presidente
WWF Italia, Alessandra Prampolini, Direttore Generale
AICAN Associazione Italiana Canoa Canadese, Sergio Barbadoro, Presidente


[1]52 miliardi di metri cubi l’anno è la stima storica fornita in IRSA-CNR Un futuro per l’acqua in Italia. Bozza per la discussione del corso del Convegno IRSA-30 anni. Roma 24 Giugno 1999. ISPRA in un suo recente comunicato stampa dell’8 luglio 2022 ha fornito una stima di 141,9 miliardi di metri cubi, dei quali circa 64 vanno a ricaricare le falde acquifere.

[2]Autorità di bacino del fiume Po, 2015 – Progetto di Piano del Bilancio Idrico per il Distretto del fiume Po – Piano di Gestione del Distretto Idrografico del Fiume Po – Art. 14 dell’Allegato “Misure urgenti e indirizzi attuativi generali del Piano di Gestione” alla Deliberazione del Comitato Istituzionale n. 1/2010 di adozione del Piano di Gestione. Proposta per la valutazione del Comitato Tecnico e del Comitato Istituzionale dell’Autorità di Bacino Distrettuale del Fiume Po

[3] www.waterfootprint.org

fonte: cirf.org